Ero l’anima della cattiva società e posso dirtelo sinceramente: al Kgb le mie generalità1 si conòscevano perfettamente. Di me s’innamorava tutta la mia via e tutta la stazione Savelovskij. Sapero che di me ci si interessava, ma rimanevo comunque impassibile. Ero di casa tra topi di appartamento, uno di casa tra gli scippatori, e il cittadino-capo Tokarjev per colpa mia non chiudeva occhio. Non mi sono mai annoiato senza colpi grossi movimentati. Ma qualcuno ha sgarrato, ha sussurrato, ha indicato e son bruciato! Il capo non era affato pedante, ma mi chiamava per iterrogarmi, e io gli rispondevo gentilmente e dicevo con modestia e garbo: «Non ho cadaveri sulla coscienza, non ho sfidato mai il destino, ed io, capo ho dormito con pazienza e della vostra Investigativa me ne infischio». Il mio caso non è stato rimandato e hanno emesso la sentenza: quel che mi spettava me l’hanno dato, il procuratore aggiunge cinque anni in pendenza. Il mio avvocato voleva solo cose doverose tenendo conto del mio carattere aperto, ma il procuratore era più ritroso, però secondo me aveva torto.        
1 Di solito il Kgb si inressava di casi politici, di dissidenti, di persone che avevano contatti con gli stranieri. Ma in questa storia il personaggio è proprio un delinquente recidivo («cinque anni in pendenza»).
 
© Liudmila Kouchera Bosi. Traduzione, 2004