Chi finisce la vita in tragedia, quello è un vero poeta, tanto più se poi è proprio lui che presceglie la data, alla cifra ventisei uno andò incontro alla pistola e l’atro all’Angleterre si è allacciato la gola. A trentatré anni il Cristo dicera, da vero poeta: non mi ammazzare, se uccidi troverai ogni fuga sbarrata. E gli hanno inchiodato le mani per renderlo meno operante e gli hanno inchiodato la fronte perché non pensasse più niente. Trentasette è una parola da cui l’euforia defila e anche ora, in sua presenza, una folata mi raggela, fu a questa età che Puskin arrivò puntuale ed duello e Majakovskij la canna puntò diritto al cervello. Fermiamoci al trentasette. Il dio infido e scaltro senza mezze misure ci chiese: o questo o quell’altro R Byron e Rimbaud sono caduti proprio su quel limitare chi è vissuto, però, se l’è saputa cavare. Il duello non c’è stato, oppure è stato rimandato, A trentatrè l’han crocefisso, ma non hanno esagerato, e a trentasette non fu il sangue, il sangue asqua di vita, fu asquavite che la vita gli ha imbrattata. Non ha il fegato di spararsi, gli si calano le braghe, psicopatici ed isterici, calmatevi le foghe, sulla lama del rasoio scalzi avanzano i poeti e nelle loro anime spoglie sono tutti lacerati. Sopra un collo troppo lungo il poeta ha la sua testa e l’epilogo più chiaro è: amputarlo quanto basta; e lo hanno pugnalato, ma se il poeta langue esangue perché fa troppa paura, è contento del suo sangue. Parmigiani delle date e della fatale ora, possiate voi languire come suore di clausura. Si è allungata la durata della vita, e anche la fine dei poeti ha spostato il suo confine.        
© Sergio Secondiano Sacchi. Traduzione, 1992